OCCUPAZIONE DI GAZA/ “Bagno di sangue, negoziato, fattore Putin: tutte le incognite del piano di Israele”

Oggi si riunisce il Consiglio di sicurezza dell’ONU sulla decisione israeliana di occupare la Striscia di Gaza. Ma c’è un negoziato ancora aperto
“Netanyahu provocherà uccisioni di massa”. È l’allarme lanciato dal segretario Generale dell’Onu António Guterres alla vigilia della riunione del Consiglio di sicurezza dell’ONU prevista per oggi. L’organo esecutivo delle Nazioni Unite dovrà pronunciarsi sul piano di occupazione della Striscia di Gaza votato dal gabinetto di guerra israeliano con il parere contrario dei massimi vertici militari.
Il governo israeliano sta mettendo in atto il suo piano, nonostante la contrarietà di un numero crescente di Paesi. L’unica incognita – spiega Filippo Landi, già corrispondente RAI a Gerusalemme e inviato speciale del TG1 Esteri – “riguarda la posizione degli USA in Consiglio di sicurezza”. Nel frattempo, il vicepresidente JD Vance ha fatto sapere che gli USA non riconosceranno “uno Stato di Palestina”.
Al momento l’occupazione della Striscia, spiega Landi, appare legata a due aspetti. Il primo è un tentativo di negoziato condotto sotto traccia in queste ore da Egitto e Qatar, con l’assenso dei sauditi. Il secondo è la migrazione dei palestinesi che dovrebbero fuoriuscire da Gaza. Sarebbe necessario l’assenso di Putin e potrebbe venire discusso nel summit sull’Ucraina tra Putin e Trump che avverrà in Alaska il prossimo 15 agosto.
Secondo Haaretz non soltanto il capo di stato maggiore Zamir, ma anche il principale consigliere di Netanyahu per la sicurezza, Tzachi Hanegbi, ha detto no al piano di occupazione. Come si spiega questa opposizione?
Ventidue mesi di guerra hanno portato la situazione è a un punto difficilmente gestibile in termini soltanto militari. L’IDF sa di avere a che fare con un territorio, quello della Striscia, con l’80% di infrastrutture distrutte e una popolazione alla fame. E sa che prenderne possesso vuol dire prepararsi a una permanenza lunga, impantanandosi in una situazione di guerriglia permanente. Una realtà non nuova, già sperimentata dal 1967 al 2005.
Tutto ciò cosa comporta?
Israele si trova ad un bivio politico. O svuota Gaza dei palestinesi, oppure deve prendere atto che la guerra finora non è stata vinta e che quindi occorre un accordo, non solo con Hamas, ma con l’intera galassia di milizie che ci sono a Gaza.
C’è una trattativa in corso oppure restano solo le armi israeliane?
C’è in atto uno sforzo dell’ultima ora che vede protagonisti alcuni Paesi arabi, ma anche alcuni esponenti politici e militari all’interno di Israele. L’Egitto è alla ricerca di una soluzione, con il benestare dei sauditi, che potrebbe e dovrebbe avere il consenso di Hamas.
Una soluzione basata su quali punti?
Il primo: il ritiro degli israeliani e un cessate il fuoco che metta fine alla guerra, con l’aggiunta della disponibilità di Hamas a far deporre le armi ai propri miliziani all’interno della Striscia. Secondo punto, l’esilio all’estero degli esponenti dell’ala militare. Terzo punto, una nuova amministrazione di Gaza, affidata in maggioranza ai palestinesi, senza un esercito, senza miliziani, ma con una normale polizia per mantenere l’ordine pubblico. E infine la totale ripresa degli aiuti internazionali.

Quali sono le “quotazioni” di questo tentativo?
Sono in ascesa, perché il rigetto da parte dell’opinione pubblica internazionale del piano deliberato dal gabinetto di guerra ha rilanciato il ruolo dei mediatori e il loro messaggio politico a Netanyahu. Che coincide con quello dei militari.
Vale a dire?
Hamas deve accettare la rinuncia alle armi all’interno di Gaza, ma Netanyahu deve accettare il fatto che la liberazione degli ostaggi può avvenire solo attraverso un accordo con chi li detiene, cioè con Hamas.
Il giorno del gabinetto di guerra Netanyahu ha parlato della disponibilità di Israele a concedere la gestione della Striscia a non meglio precisate forze arabe. Nulla a che vedere con gli Stati arabi menzionati?
No. Quella di Netanyahu era un’affermazione che neppure i suoi collaboratori e i militari considerano plausibile. Nessuno Stato arabo accetterebbe di fare il poliziotto sulle macerie di Gaza e magari reprimere le azioni di guerriglia contro Israele.
Dunque si è trattato soltanto di un tatticismo?
Era un messaggio rivolto ai militari israeliani: non intendo portarvi nel pantano di Gaza per i prossimi vent’anni. Solo che il capo di stato maggiore non gli crede. A questo riguardo c’è un elemento che non deve sfuggire.
Quale?
In queste ore il generale Zamir ha attaccato i ministri che nel lunghissimo gabinetto di guerra israeliano, durato 11 ore, hanno votato a favore di Netanyahu.
Vuol dire che la frattura deve ancora essere ricomposta?
Zamir ha personalizzato lo scontro perché contava su una maggioranza di ministri disponibili a votare contro Netanyahu e l’occupazione della Striscia. È questa la realtà dietro il fantasma del colpo di Stato ventilato dal figlio di Netanyahu. Oggi l’ira del generale ci dice che invece una parte dei politici ha scelto ancora una volta di sostenere il premier.
Se il negoziato fallisce resta l’occupazione di Gaza, e con essa, questo è il calcolo di Netanyahu, l’espulsione dei palestinesi. A quali condizioni può avvenire e verso dove?
La destinazione sarebbe la Cirenaica, passando attraverso l’Egitto. Ma perché il piano possa realizzarsi occorre che ad accettare la migrazione non sia solamente Haftar, che controlla la Cirenaica. Serve l’assenso di Putin.
Potrebbe essere questo il motivo del colloquio telefonico tra Netanyahu e Putin di cui si è saputo il 4 agosto?
Lo spostamento dei palestinesi in Cirenaica sarà un argomento di discussione a margine dell’incontro previsto in Alaska tra Trump e Putin. Se Putin sarà soddisfatto dell’interlocuzione sull’Ucraina, è possibile che Trump, non pubblicamente, chieda a Putin di dare il benestare all’uscita dei palestinesi.
Il presupposto di tutta l’operazione è che i palestinesi ancora nella Striscia acconsentano ad andarsene. Sarà così?
È il vero problema. La realtà è che oggi sul piano internazionale assistiamo ad un coro di no allo spostamento, ad eccezione degli Stati Uniti. Quindi è certamente possibile che una massa consistente di palestinesi, non appena i tank torneranno nella Striscia, decidano di non lasciare Gaza.
Che cosa ci aspetta?
Esattamente ciò che Zamir ha fatto dire dai suoi uomini ai giornalisti israeliani, ossia che si rischia un bagno di sangue, la cui colpa ricadrebbe sull’IDF. Una tragedia che si aggiungerebbe alla deprivazione e alla morte per fame.
(Federico Ferraù)
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